"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

Un libro andrebbe letto tre volte

A vent’anni leggi e sei agli esordi della vita, con tutto in prospettiva e in un certo senso in sospensione e creazione: affetti, famiglia, lavoro. Chi sei e chi sarai è tutto in divenire.

A cinquant’anni rileggendo lo stesso libro trovi conferme, certezze e risposte che hai costruito e maturato. Leggi e annuisci, rifletti e confermi, avendo dalla tua la forza e l’esperienza.

A settant’anni leggi e speri. Speri di non ammalarti, di non dipendere dagli altri, di non essere un peso per nessuno. Rileggendo un Libro per la terza volta spesso sorridi, perché ritrovi parti di te, rivivi le giornate lievi e quelle grevi. Ciò che occupa i pensieri è la dipendenza, non certo la morte, che consideri come un passaggio della vita. Non ti fa paura, perché è una delle tante soglie che hai attraversato e visto attraversare: appartiene agli eventi naturali.

Un cliente dell’ Isola di Arturo

Di-versi

Siamo fatti di-versi, perché siamo poesia.

Guido Marangoni

Il Colosseo e Gabriele Basilico

Una lotta, quella tra Gabriele Basilico e il Colosseo, che spinge il primo a sperimentare talvolta l’efficacia comunicativa della visione diagonale, piuttosto che l’invasione totale dell’immagine attraverso visioni parziali dell’oggetto fotografato, verso la delineazione di una nuova natura espressiva. Basta che il suo sguardo si stacchi dalla sontuosità della materia, per traguardare in lontananza, e subito il monumento recupera la distensione lineare di una memoria degli acquedotti tesi a segnare e a misurare solennemente il paesaggio e la campagna romana. Ancora una volta Gabriele Basilico fa propria la lezione piranesiana della restituzione per frammenti, dove l’atmosfera è circonfusa da un brulichio, che più che darsi come pulviscolo atmosferico tende a porsi come slancio animistico e vitalistico per restituire alle immagini selezionate la grandiosità della totalità.

Francesco Moschini – Da Arte e critica / Giugno 2013

Fotografia e rappresentazione

Penso che la mia resti comunque una fotografia descrittiva, fedele allo stile “documentario”. Questo modo di lavorare, mio e di altri, ha ritrovato un senso e una funzione dopo la fine degli anni ’70. L’architettura e l’urbanistica hanno realizzato che la documentazione fotografica poteva essere uno strumento nuovo ed efficace per aiutare a rappresentare il paesaggio postindustriale che si era trasformato troppo rapidamente.

Gabriele Basilico in “Palermo andata e ritorno”

Ferdinando Scianna scrive di Gabriele Basilico

Vedo il lavoro di Gabriele come una sorta di diario sentimentale e trovo che non sia stato dato sufficiente risalto all’emotività che lo guida alla scoperta del fatto urbano come se fosse la lettura di un libro di pietra, come Victor Hugo definiva la città, come al carattere singolarmente mediterraneo delle sue immagini.

Ferdinando Scianna in “Basilico: Palermo andata e ritorno”

Paesaggio come “corpo”

Proprio perché per Basilico il paesaggio è corpo, il suo lavoro non si è mai fermato: l’iterazione, il ritorno sui luoghi, il modo laborioso di guardare e riguardare i contesti urbani e metropolitani contemporanei nel loro crescere, articolarsi, sorprendente rivelarsi per il tramite della lettura fotografica, sono il metodo di questo artista che ha sempre coniugato una sicura progettualità con una nascosta emotività. Le sue sono state azioni pianificate e insieme sentimentali che hanno portato alla costruzione di grandi serie di immagini non rispondenti a criteri di una rigida serialità, ma invece strutturate secondo un continuo avvicendarsi di tipologie ricorrenti: appunto quell’andamento che abbiamo definito sinusoidale già presente in nuce in “Milano ritratti di fabbriche”. Dopo quella prima significativa esperienza egli ha osservato il paesaggio secondo grandezze diverse dello sguardo, ora staccandone ed evidenziandone gli elementi emergenti, ora affrontandone il complesso tessuto, ora adottando slittamenti di grandezze all’interno di uno stesso lavoro e anche livelli dello sguardo e punti di vista diversi, fino alla veduta dall’alto, adottata a metà degli anni Ottanta durante i lavori per la Mission Photographique de la DATAR, il grande progetto di committenza dello Stato francese dedicato al paesaggio contemporaneo, poi a Beirut e in seguito in molti lavori fino ai primi anni Dieci del Duemila, forse a significare il tentativo estremo di prendere in considerazione tutto l’insieme della città, tutto il paesaggio possibile, e infine anche rotazioni della macchina che danno come esito dinamiche vedute diagonali quasi di tono strutturalista, come nell’ampio lavoro su Mosca.

Roberta Valtorta nella sua introduzione all’edizione 2022 di Milano Ritratti di fabbrica