"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

L’uomo di Neanderthal

“INTERVISTATORE – Ora che il signor Neander ci ha descritto il lavoro snervante, monotono…

NEANDER – Monotono sei tu, monotono! Le sai fare le tacche nelle pietre, tu, le tacche tutte le stesse, le sai fare monotone le tacche? No, e allora cosa parli? Io sì che le so fare! E da quando mi ci sono messo, da quando ho visto che ci ho il pollice, lo vedi il pollice? Il pollice che lo metto di qui e le altre dita le metto di là e in mezzo ci sta una pietra, nella mano, stretta forte che non scappa, da quando ho visto che tenevo la pietra nella mano e ci davo dei colpi, così, oppure così, allora quello che posso fare con le pietre lo posso fare con tutto, con i suoni che mi escono dalla bocca, posso fare dei suoni così, a a a, p p p, gn gn gn, e allora non smetto più di fare suoni, mi metto a parlare, a parlare e non la smetto più, mi metto a parlare di parlare, mi metto a lavorare delle pietre che servono a lavorare delle pietre, e intanto mi viene da pensare, penso a tutte le cose che potrei pensare quando penso, e mi viene anche voglia di fare qualcosa per far capire agli altri qualcosa, per esempio di dipingermi delle strisce rosse sulla faccia, non per altro ma per far capire che mi sono fatto delle strisce rosse sulla faccia, e a mia moglie mi viene voglia di farle una collana di denti di cinghiale, non per altro ma per far capire che mia moglie ha una collana di denti di cinghiale, e la tua no, chissà cosa ti credi di avere tu che non ci avevo io, non mi mancava proprio niente, tutto quehe è stato ato fatto dopo già lo facevo io, tutto quello che è stato detto e pensato e signicicato c’era già in quello che dicevo e pensavo e significavo, tutta la complicazione della complicazione era gia li, basta che io prendo questo ciottolo con il pollice e il cavo della mano e le altre quattro dita che ci si piegano sopra, e già c’è tutto, ci avevo tutto quello che poi si è avuto, tutto quello che poi si è saputo e potuto ce lo avevo non perché era mio ma perché c’era, perché c’era già, perché era lì, mentre dopo lo si è avuto e saputo e potuto sempre un po’ meno, sempre un po’ meno di quello che poteva essere, di quello che c’era prima, che avevo io prima, che ero io prima, davvero io allora c’ero in tutto e per tutto, mica come te, e tutto c’era in tutto e per tutto, tutto quello che ci vuole per esserci in tutto e per tutto, anche tutto quello che poi c’è stato di balordo c’era già in quel deng! deng! ding! ding! dunque cosa vieni a dire, cosa ti credi di essere, cosa ti credi di esserci e invece non ci sei, se ci sei è solo perché io sì che c’ero e c’era l’orso e le pietre e le collane e le martellate sulle dita e tutto quello che ci vuole per esserci e che quando c’è c’è.

Italo Calvino | Prima che tu dica “Pronto”

Il divario tra me e i luoghi scemò

“Ma a ritrovar me stesso, bastò che m’incontrassi nel vecchio fiume asciutto. (…)
Era un grande fiume di sassi bianchi, pieno di silenzio.
Solo vestigio d’acqua, un rivolo strisciava in disparte, quasi di nascosto. A tratti l’esiguità del rigagnolo, tra pietre grandi precludenti l’intorno e rive di canneti, mi ritrasportava tra i noti torrenti e mi riproponeva alla memoria più strette e faticate valli.
Fu questo: e forse anche il contatto delle pietre sotto i miei piedi – rosi sassi del fondo dal dorso incrostato d’un velo d’alghe rattrappite – o l’inevitabile muovere dei miei passi, a balzi, da l’uno scoglio all’altro, o forse fu solo un rumore che fece la ghiaia, franando.
Sta il fatto che 𝗶𝗹 𝗱𝗶𝘃𝗮𝗿𝗶𝗼 𝘁𝗿𝗮 𝗺𝗲 𝗲 𝗶 𝗹𝘂𝗼𝗴𝗵𝗶 𝗾𝘂𝗶 𝘀𝗰𝗲𝗺𝗼̀ 𝗲 𝘀𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗼𝘀𝗲: 𝘂𝗻𝗮 𝘀𝗼𝗿𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗳𝗿𝗮𝘁𝗲𝗹𝗹𝗮𝗻𝘇𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗶 𝗺𝗲𝘁𝗮𝗳𝗶𝘀𝗶𝗰𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗮𝗻𝗴𝘂𝗶𝗻𝗲𝗶𝘁𝗮̀ 𝗺𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗮𝘃𝗮 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝗹 𝗽𝗶𝗲𝘁𝗿𝗮𝗺𝗲, fecondo solo di timidi, tenacissimi licheni. 𝗘 𝗻𝗲𝗹 𝘃𝗲𝗰𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗳𝗶𝘂𝗺𝗲 𝗮𝘀𝗰𝗶𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝗯𝗯𝗶 𝘂𝗻 𝗺𝗶𝗼 𝗮𝗻𝘁𝗶𝗰𝗼 𝗽𝗮𝗱𝗿𝗲 𝗶𝗴𝗻𝘂𝗱𝗼.”

Italo Calvino | Prima che tu dica “Pronto”

“ritagliando le ombre dei tetti”

“Il sole entrava nella via di sbieco, già alto, illuminandola disordinatamente, ritagliando le ombre dei tetti sui muri delle case di fronte, accendendo di barbagli le vetrine agghindate, battendo, sbucato da insospettati spiragli, sul volto dei passanti frettolosi, che si scansavano su marciapiedi affollati.”

Italo Calvino | Prima che tu dica “Pronto”

Metropoli

“… comunque la metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era.”

Italo Calvino a proposito di Maurilia una delle 55 “Città invisibili”

“Le città invisibili di Italo Calvino”. Di Carmelo Celona

“Il grande autore [Italo Calvino] non spiega quel che vedono i nostri occhi ma ciò che percepisce il nostro inconscio quando visitiamo le città. Ci spiega come queste siano sempre un contenitore di emozioni e come sia possibile viverle. Ci insegna a cogliere l’anima delle città e leggerle.

Illustra come quelle pietre modellate dall’uomo siano la sintesi dei caratteri di un pensiero collettivo, di una forma mentis comune.

Spiega come le forme delle città plasticizzano le vicende, gli usi, i costumi, che danno vita al codice genetico della comunità che le abita.

Ci fa capire che i pieni e i vuoti delle città, i loro segni e i loro simboli siano la forma della loro storia sedimentata con unicità espressiva nelle architetture, piazze, strade, viali, palazzi, monumenti.”

Carmelo Celona

(originale in: https://amp.messinatoday.it/blog/la-forma-delle-idee/messina-le-citta-invisibili-italo-calvino-maurilia.html)

I bigliardini della solitudine

Nel 1975 Italo Calvino, durante un viaggio in Giappone, descrisse una situazione che fa sembrare quel viaggio nello spazio (dall’Italia al Giappone) un viaggio nel tempo (dal 1975 al 2015).

“Da noi [in Italia] i flippers dei bar e anche quelli delle sale apposite sono quasi sempre circondati da capannelli di giovani, terreno di sfide e scommesse e sfottiture reciproche.

Qui [in Giappone] l’impressione è d’una affollata solitudine, nessuno sembra conoscere nessuno, ognuno è intento al suo gioco, guarda fisso nel suo saettante labirinto e ignora il vicino di destra come quello di sinistra, ognuno è come murato in una sua cella invisibile, isolato in una sua ossessione o condanna.”

Italo Calvino in “Collezione di sabbia”