L’Avinguda Diagonal (in castigliano Avenida Diagonal) è, insieme alla Gran Via de les Corts Catalanes, una delle maggiori strade cittadine di Barcellona, la larghezza varia tra i 30 e i 60 metri e la lunghezza è di 11 km.
Fu progettata dall’ingegnere e urbanista Ildefonso Cerdà come uno dei viali principali della città. Assieme alla Avinguda Meridiana taglia diagonalmente la pianta viaria ortogonale che egli stesso progettò per il quartiere Eixample. Entrambe le strade si incrociano presso la Plaça de les Glòries Catalanes, assieme alla Gran Via de les Corts Catalanes, che Cerdà pensò come nuovo centro per la città anche se ciò non avvenne poiché la posizione privilegiata e centrale di Plaça de Catalunya la fece diventare il centro nevralgico della città. Il viale ha inizio nel quartiere di San Martin, vicino a San Adrian del Besos vicino alla Ronda del Litoral affianca il mare, e in diagonale verso la città di Lleida e Madrid e porta alla Ronda de Dalt, nei pressi di Esplugas Llobregat, nel quartiere di Les Corts.
Come già detto la DIAGONAL deve il suo nome al fatto che taglia diagonalmente la città catalana da un estremo all’altro, con un angolo di circa 25 gradi rispetto a tutte le altre vie disposte a pianta quadrata; ciò produce dal punto di vista sociale, e anche dal punto di vista fotografico, una lunga serie di spazi a forma irregolare (di norma quasi triangolare) che nell’uniformità della pianta quadrata spiccano per la loro diversità sia geometrica che funzionale.
In questi angoli triangolari, oltre a splendidi palazzi con una punta – in alcuni casi – molto articolata, ho trovato, ad esempio, “orti sociali”, giardini per cani, spazi giochi per i bambini, sculture particolare, teatri all’aperto ecc.
Urbanisticamente la via può essere sinteticamente suddivisa in tre tratti che ho chiamato: Link per visionare gli altri tratti:
A incontrare l’essenza e l’anima degli alberi, con un linguaggio asciutto e introspettivo, reso possibile dalla scelta calligrafica del bianco/nero, ci aiuta il lavoro, intimo e delicato, di Dalila Bececchi. Un’autrice che non è nuova a questo tipo di indagini, già consolidate anche in pregresse esperienze espositive. Basandosi su un’interpretazione personale, molto vibrante e acuta, con tratti di autentica empatia con le forme degli alberi, questa autrice ne disvela la loro intima essenza, conducendo anche gli osservatori più distratti dentro la pelle degli alberi, la loro storia, le loro radici. Un percorso visivo che ci permette, grazie alla tipologia e alla natura dei contrasti impiegati, di entrare in sintonia con le forme degli alberi, che si attorcigliano, si contorcono, si distendono. Alberi che respirano, ossigenano, e che, nelle immagini di questa fotografa, lasciano intravedere, anche dalla complessità delle loro forme, quanto viva possa essere la materia di cui si compongono e quanto essi siano importanti, anche nelle realtà urbane, per il nostro benessere psico-fisico.
GUIDO BENEDETTI «Alberi nell’estetica urbana»
Guido Benedetti ci accompagna nella perlustrazione dello spazio urbano cittadino, di cui gli alberi costituiscono una parte evidente, sia in termini identitari, sia come micro-contesti nell’ambito dei quali i cittadini sperimentano quel diffuso sistema di “caring ambientale”, che è tratto peculiare della città di Trento. Essenziali e rigorose, le inquadrature di Guido Benedetti, con la loro cifra documentaria, offrono una lettura degli spazi urbani dedicati agli alberi entro la quale la cifra stilistica di questo autore viene esercitata ricercando composizioni e simmetrie formali, a forte valenza geometrica e prospettica, capaci di restituirci quell’ininterrotto dialogo che, i luoghi del verde, intrattengono con le strutture dell’abitare un territorio. Una sequenza colta con il rigore della fotografia documentaria e con la valenza interpretativa da parte di chi, in più di una circostanza, si è dimostrato in grado di leggere il territorio e di rappresentarlo, visivamente, con l’ausilio di precise e strutturate coordinate metodologiche di analisi.
LUCA CHISTÈ «Trento, città d’alberi»
Questo lavoro è volto a chiarire la relazione esistente fra il paesaggio (antropico od urbano), in termini di percezione, e coloro che lo osservano o lo vivono nelle ore notturne. La specificità delle luci, delle atmosfere – silenti e rarefatte – dei parchi o di molte aree verdi urbane, ci permette di apprezzare l’esistenza degli alberi come entità che, in qualche modo, offrono una cifra articolata della loro importanza per il nostro tessuto urbano e per la qualità della nostra vita. Le ore notturne, sia per il paesaggio in generale, sia per gli spazi verdi in particolare – siano essi parchi o alberi utilizzati come semplici elementi di arredo urbano – ci offrono la possibilità di esperire, con questi luoghi, una relazione unica, basata su una diversa predisposizione mentale e psicologica, aiutandoci a ridefinire il modo stesso in cui concepiamo il rapporto fra lo spazio dove abitiamo e le aree verdi. L’indagine, condotta dalle ore del crepuscolo e fino a notte fonda, ha colto luci e atmosfere che sembrano svelare il misterioso legame che la natura selvaggia intrattiene con la città.
FRANCESCO FRANZOI «Vivere gli alberi»
Da sempre legato a temi narrativi di forte ispirazione reportistica o del “daily life”, Francesco Franzoi, sia in termini contenutistici, sia in termini calligrafici, offre una lettura acuta e originale di questo tema, regalandoci una serie di immagini capaci di mettere in relazione gli alberi e gli spazi verdi intesi come spazi di comunità. Scatti per lo più “rubati”, frutto di appostamenti e mai banali. Immagini pensate per far capire, sia in termini sociali, sia in relazione alle attività di pianificazione delle aree verdi da parte delle istituzioni, quanto essi siano importanti per la qualità della vita e del nostro tempo libero. Come nel caso di Dalila Bececchi, anche questo autore, al fine di permettere la massima focalizzazione sul tema, favorendo una lettura quanto più accurata del legame esistente fra le persone e gli alberi, fa impiego di un bianco/nero rigoroso e bilanciato, capace di rifuggire da facili e prevedibili soluzioni grafico/estetiche. Pienamente iscritte dentro una forma di narrazione basata sull’immediatezza e la semplicità, le fotografie di Francesco Franzoi, ci raccontano di come le cose appaiono e, in questo specifico caso, così come reso evidente dal percorso espositivo generale, di quanto sia “strategico” e rilevante lo spazio verde pubblico, di cui gli alberi costituiscono l’accentuazione più evidente e caratteristica.
immagini di Guido BENEDETTI | Luca CHISTÈ | Francesco FRANZOI | Michele VETTORAZZI a cura di Alessandro Franceschini
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GUIDO BENEDETTI | Conservazione e trasformazione di un territorio storico antropizzato
Il lavoro parte dalla ricerca storica effettuata sulle prime mappe catastale disponibili (ultimate per il territorio del Tirolo nel 1861) che ha consentito di evidenziare i siti e gli edifici già esistenti a quella data e le loro caratteristiche costruttive di massima (in legno o in mattoni). La sovrapposizione degli areali così individuati con le ortofoto più recenti ha poi permesso di identificare gli edifici storici presenti a tutt’oggi ed individuare eventualmente le zone aperte corrispondenti a vecchi edifici non più esistenti. A partire dalla ricerca storica effettuata, che ha permesso di evidenziare molto chiaramente l’evoluzione del tessuto costruito con una visione zenitale del terreno, la ricerca fotografica condotta ha voluto affiancare a questa visione perfettamente zenitale (che ha sicuramente molti pregi tra i quali quello di rappresentare oggettivamente quello che oggi viene chiamato “consumo di suolo” e quindi di cogliere perfettamente un dato di tipo quantitativo) una visione orizzontale che, a parere dell’autore, è in grado di cogliere più chiaramente il mutamento qualitativo delle costruzioni. In questo modo si consente a chi osserva le immagini di entrare quasi fisicamente all’interno dei piccoli centri abitati oggetto della ricerca in modo da apprezzare in questo modo sia gli edifici storici giunti fino a noi nella loro condizione primitiva che gli edifici oggetto di risanamento e di riammodernamento cogliendo il permanere dello schema distributivo riportato sulle mappe storiche risalenti al 1861 e le tracce lasciate sugli stabili sia da interventi di manutenzione straordinaria che da interventi di miglioria generali o puntuali in cui si assiste all’uso di nuovi materiali affiancati a quelli tradizionali e all’integrazione di nuove funzioni all’interno degli edifici.
Anche l’intimità che portiamo con noi fa parte del paesaggio
Gianni Celati dal suo libro“Verso la foce“
…Nell’ecologia fluviale il meandro è una ricchezza inestimabile: allunga la superficie di contatto fra acqua e terra, amplia quel mondo umido e anfibio che è patria e ricettacolo della più sconvolgente biodiversità. Un fiume che corre dritto in mare dà molto meno, al mondo.
www.unaparolaalgiorno.it
Nota introduttiva
Ogni avventura ha sempre un suo inizio e un suo perché.
Se l’ispirazione per l’avvio del mio lavoro dedicato alla storica strada di attraversamento della borgata di Mori (la cosiddetta via Imperiale) è giunta nella primavera del 2020, in pieno lock down, dopo aver seguito una presentazione del lavoro fotografico dedicato alla città di Padova da parte del fotografo (e architetto) Marco Introini e aver contemporaneamente ripensato alla metodologia di lavoro che un altro grande fotografo (e architetto) Gabriele Basilico aveva più volte raccontato nelle sue interviste, la fonte ispiratrice del mio nuovo lavoro che ho denominato, significativamente, ME.AND~SCAPE è stata la lettura (e le successive riletture) di un libro molto particolare.
Mi riferisco al libro dal titolo “Verso la foce” formato da quattro racconti che l’autore Gianni Celati, conosciuto da tanti ma sconosciuto a molti, definisce “racconti d’osservazione”.
Al libro, come mi era già successo con gli scritti di Alessandro Cucagna (che saranno stati poi alla base del mio lavoro fotografico culminato con la stampa del libro “Gardumo 77.78 17.18”), che mi aveva fin da subito colpito e che inizialmente aveva stimolato in me l’idea di tornare su quei luoghi per capire, dopo 40 anni, cosa era successo all’ambiente fisico e umano raccontato dall’autore a cavallo tra il 1983 e il 1986, ho dedicato più letture e ho lasciato che i pensieri e le osservazioni contenute potessero decantare lentamente in me stesso.
L’idea di tornare su quei luoghi è sicuramente rimasta forte in me, ma al contempo ho rielaborato quanto letto e sono andato alla ricerca della “mia foce” e di territori ancora relativamente vergini da osservare, prima, e raccontare, poi, per mezzo della mia macchina fotografica.
La scelta del territorio, visto anche la mia passione “idraulica” di gioventù e la conoscenza tecnica della materia, è stata di conseguenza naturale: avrei seguito il fiume Adige là dove la mano dell’uomo era stata meno invasiva e dove non era intervenuta troppo pesantemente con i molti lavori di rettifica che l’amministrazione austriaca aveva realizzato in concomitanza dei lavori di realizzazione della ferrovia del Brennero poco prima della famosa alluvione del 1882.
Ho così individuato la zona della Terradeiforti, poco a sud del confine tra la provincia di Trento e la provincia di Verona, nella quale il fiume Adige mantiene ancora oggi il suo andamento meandriforme del secolo XIX. Il territorio individuato fa parte del Comune di Brentino Belluno, situato sulla sponda destra dell’Adige, e il Comune di Dolcè, situato sulla sponda sinistra del fiume, i cui confini corrispondono con l’asse, in quel tratto tutt’altro che rettilineo, del fiume Adige.
Come immaginavo fin dalle prime mie prime uscite ho potuto raccontare un territorio agricolo dove la mano dell’uomo ha prodotto, e continua tutt’oggi a produrre, un paesaggio curato e armonioso che rimane a contatto con il fiume, la sua acqua e i materiali da esso trasportati durante le piene.
I Meandri sono anse (le curve di un fiume) che si susseguono per lo più regolarmente lungo un tratto di un corso d’acqua. La lunghezza media dei meandri è in genere proporzionale alla larghezza media del letto del fiume, così come il raggio di curvatura del meandro. L’evoluzione di questa manifestazione morfologica, avviene per mezzo dell’erosione laterale a spese della sponda esterna di ogni curva. Questo fa si che in corrispondenza del meandro l’acqua “scontrandosi” contro la sponda esterna causa un’erosione.
Nel momento in cui l’acqua compie l’opera di erosione della sponda esterna, va a creare un deposito di sedimenti sulla sponda interna, questo perché la velocità dell’acqua nella sponda esterna è maggiore determinando un’erosione con arretramento della riva, al contrario la velocità dell’acqua nella sponda interna sarà minore e quindi avremo deposizione di materiale, ne risulta quindi che le singole anse, possano subire dei cambiamenti.
Un fenomeno molto comune è il taglio di meandro, dove quando abbiamo due anse omologhe, la forma di esse di accentua fino a ridurre lo spazio tra di esse, fino a toccarsi, così facendo abbiamo un’accorciamento del percorso fluviale, mentre in corrispondenza del meandro “abbandonato” l’acqua ristagna, fino ad interrarsi con il tempo, per poi trasformarsi in una palude.
I meandri si presentano solitamente in corsi d’acqua in equilibrio (cioè stessa quantità di erosione e di sedimentazione) o moderatamente tendenti all’erosione o alla sedimentazione. A parità di spazio occupato dal fiume, un fiume rettilineo ha una lunghezza minore di un fiume a meandri con una misura che va da 1,5 a 4 volte.
Il termine “Meandri”, deriva da un fiume dell’Asia minore, il Meandro, che presenta un andamento particolarmente serpeggiante.
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Fonte: www.treccani.it
Ognuna delle serpentine, o curve a forma di S, soggette a spostamenti (e perciò dette anche meandri divaganti), che certi fiumi formano scorrendo nel loro corso inferiore in piane alluvionali a leggera pendenza; meandri incassati: incisi dalla corrente nella roccia sottostante la coltre alluvionale e, quindi, non soggetti a spostamenti; meandri morti: quelli che, in seguito a un naturale processo di raddrizzamento del corso del fiume, risultano strozzati alla base, con l’isolamento di un’ansa destinata a prosciugarsi. etimologia: dal nome del fiume Meandro (gr. Μαίανδρος, lat. Maeandrus e Maeander), fiume dell’Asia Minore, che già in greco e in latino aveva assunto questo significato figurato per i caratteristici serpeggiamenti del suo corso.#meandro, #ansa, #fiume
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fonte: www.unaparolaalgiorno.it
“I meandri … sono … le curve che il fiume naturalmente tende a compiere in piano: abbiamo tutti in mente l’ampio fiume tropicale che serpeggia attraverso la foresta, compiendo larghi seni. …Nell’ecologia fluviale il meandro è una ricchezza inestimabile: allunga la superficie di contatto fra acqua e terra, amplia quel mondo umido e anfibio che è patria e ricettacolo della più sconvolgente biodiversità. Un fiume che corre dritto in mare dà molto meno, al mondo.”
Il progetto “Via Imperiale | Kaiser Strasse” nasce in piena pandemia COVID-19 quando ad aprile 2020 l’Italia si fermò e quasi tutti noi dovemmo rimanere chiusi in casa con l’unica possibilità di uscire solo per brevi passeggiate e facendo attenzione a non allontanarsi troppo dalla propria abitazione.
Poco prima di quel periodo, accompagnato ancora dagli appunti e dagli studi del geografo Alessandro Cucagna, ero impegnato in una nuova puntata dedicata al nostro territorio: in particolare stavo realizzando un lavoro di rilievo fotografico dedicato alla valle di Terragnolo, una porzione delle più ampie valli del Leno, territorio situato in sinistra orografica del fiume Adige in prossimità della città di Rovereto. Il lavoro di ricerca subì inevitabilmente uno stop dopo l’ultima uscita del 7 marzo 2020 svolta già in “odore” di pandemia.
Nei giorni successivi la sensazione forte era di essere sospesi nel tempo liberi, dopo l’attività lavorativa svolta in smart-working, dalle altre mille incombenze giornaliere.
Dopo aver seguito la presentazione su youtube di un lavoro fotografico di Marco Introini dedicato all’attraversamento fotografico della città di Padova e aver ricordato il metodo di lavoro di Gabriele Basilico (che molte volte aveva dichiarato che nella maggior parte dei casi i suoi lavori seguivano un ben definito percorso geografico di lettura della città), avviai una ricerca dedicata alla storica via di attraversamento della borgata di Mori: l’elegante “via Imperiale”.
Fu così che, dopo aver preso in prestito da Gianmario Baldi – già catalizzatore, assieme a Luca Chistè, della nascita del mio progetto “GARDUMO 77.78 | 17.18” dedicato alla valle di Gresta – una copia del progetto di massima del Piano Regolatore di Mori Borgatapredisposto per la ricostruzione della città di Mori dopo la grande guerra, iniziai – anche se solo a tavolino – lo studio relativo allo sviluppo della città, e quindi delle modifiche registrate nel suo tessuto urbanistico, dopo la grande guerra.
Le ricerche sono poi state integrate con le informazioni desumibili dalle mappe storiche riguardanti la cittadina di Mori e dall’analisi della situazione registrata nelle mappe catastali risalenti all’impianto dello stesso (circa 1850). Predisposi così un primo piano di lavoro che riguardava le strade e gli edifici esistenti (o non più esistenti) lungo la storica via di attraversamento che univa la frazione di Ravazzone con quella di Mori Vecchio.
Fu così che iniziai (zaino fotografico in spalla e, molte volte, a cavallo della mia bicicletta) a percorre l’asse storico ricordato in alcuni testi come “via Imperiale”.
Il contesto registrato nelle immagini raccolte, che documentano e al contempo interpretano lo spazio urbano fotografato, si è rilevato molto interessante; a differenza delle aree edificate più recentemente, lungo la vecchia ed elegante via Imperiale gli edifici si rivelano in stretto rapporto con la viabilità di attraversamento e con gli spazi pubblici esistenti (piazze o slarghi esistenti).