Guido Benedetti

"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

Chiesa del Nome di Maria – Loppio di Mori

Foto © Guido Benedetti 2017

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La chiesa del Nome di Maria a Loppio fu costruita nel 1818-1819 su commissione del conte Cesare Pompeo di Castelbarco Visconti come cappella privata funzionale alla vicina villa di famiglia. Solo recentemente (2006) gli eredi della nobile famiglia hanno donato l’edificio alla parrocchia di Santo Stefano a Mori. Il tempio, orientato a nord, fu progettato in puro stile neoclassico dall’architetto e ingegnere lombardo Gian Luca Cavazzi conte della Somaglia, che con il Castelbarco condivideva la parentela con il conte Giacomo Mellerio, principale committente del nobile architetto. La facciata a tempio tetrastilo è preceduta da un portico sorretto da quattro colonne libere, sulle quali insiste un frontone triangolare modanato. Le fiancate, lisce, presentano ciascuna due finestre lunettate. La definizione della navata unica si mantiene fedele allo stile dell’esterno, con coppie di possenti semicolonne intonacate che scandiscono lo spazio, individuando tre campate, la seconda delle quali reca due arcate centinate laterali, sfondate; quattro bassorilievi in gesso a tema mariano, attribuiti allo scultore Giuseppe De Fabris, si dispongono ai lati delle restanti campate. Il presbiterio, rialzato su tre gradini, è introdotto dall’arco santo a pieno centro. Di gusto eclettico il campanile costruito a est della chiesa nel 1856, con fusto ripartito da tre cornicioni modanati e forato da aperture ad oblò; la cella campanaria a quattro monofore centinate è sormontata da coronamento svasato verso l’alto, culminante in un cupolino a cipolla.

maggiori info: http://necrologie.corrierealpi.gelocal.it/chiese/provincia-98-trento/5301-chiesa-del-nome-di-maria/descrizione#tab

"La partecipazione non sia solo pura protesta" di Alessandro Franceschini (dal giornale L’ADIGE di sabato 11 febbraio 2017)

In questo momento in cui è sempre più difficile capire da che parte sta l’arroganza o da chi è chiesta maggiore partecipazione, riporto dal giornale L’ADIGE di sabato 11 febbraio 2017 questo intervento, che condivido, di Alessandro Franceschini.
In particolare cito solo il seguente passaggio: «rispettare gli altri abbastanza da ascoltarli molto oltre le parole che dicono.»

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“La partecipazione non sia solo protesta”

di ALESSANDRO FRANCESCHINI (dal giornale L’ADIGE di sabato 11 febbraio 2017)

Il caso vallo tomo di Mori

Gli eventi che stanno interessando il comune di Mori, in particolare per quel che riguarda la costruzione del «vallo-tomo» a protezione dell’abitato, meritano una riflessione che va al di là del fatto contingente e piuttosto delicato, ovvero l’opportunità o meno di realizzare una struttura per la sicurezza idrogeologica di un centro abitato.

Portano a un’analisi dello stato della partecipazione dentro la nostra comunità e alla conseguente capacità che hanno i nostri amministratori di accogliere le istanze che provengono dal basso.

Viviamo un tempo, infatti, in cui la delega rappresentativa che deriva da un percorso elettorale non può essere più considerata un’investitura «in bianco»: la consapevolezza dei cittadini e la crescita delle informazioni, unite ai nuovi strumenti di discussione e di confronto collettivo mediati dalla rete di Internet, rendono la rappresentanza politica un qualcosa costantemente in discussione, quasi fosse il frutto, da rinnovare quotidianamente, di un’incessante negoziazione tra popolo e potere democratico.

Il tema dello scontro che ha coinvolto la cittadina lagarina è assai complesso: da una parte le ragioni degli uffici tecnici della Provincia, che vogliono garantire la sicurezza della cittadinanza, prevedendo la messa in opera di artefatti per il consolidamento geologico del declivio; dall’altra le istanze di una comunità locale che non vuole perdere la memoria della propria identità: ovvero quei segni antropici di conquista agricola della montagna che rendono il paesaggio moriano davvero originale e che ci ricordano, allo stesso tempo, il nostro passato e la fatica che, per secoli, gli abitanti hanno dovuto mettere in atto per rendere il Trentino una terra abitabile.

Queste due esigenze sono entrambe da sottoscrivere: garantire la sicurezza di un territorio senza perdere la qualità del suo paesaggio dovrebbe essere un imperativo imprescindibile per una comunità che vuole essere matura, moderna e consapevole.

Eppure a Mori qualcosa non ha funzionato. Ed è importante chiedersi il perché. Ogni discorso che intercetta il tema della partecipazione si presta per essere facilmente mal interpretato. «Partecipazione» è una parola diventata oramai inflazionata, spesso pronunciata a sproposito dagli amministratori e dai cittadini, svuotata di significato e che offre il fianco alla retorica populista. Nei tempi della crisi della democrazia rappresentativa, o, meglio, di quel modello di rappresentanza che abbiamo inseguito a partire dal Secondo dopoguerra, occorre affinare nuovi strumenti per il governo di una società mai stata così multiforme nel corso della storia dell’umanità.

Strumenti che possono trovare proprio nella cittadinanza attiva, consapevole, partecipante, un imprescindibile motore di propulsione democratica, capace di colmare quel deficit fiduciario che oggi separa il popolo dai suoi organi di rappresentanza. Strappando la partecipazione dal mondo delle astrazioni metodologiche e facendola diventare un elemento strutturante il senso comune, al pari di tutte quelle pratiche comunitarie, quei riti, quegli usi che non hanno bisogno di essere interrogati né di essere messi in discussione.

Nel caso del vallo-tomo di Mori è stata probabilmente sottovalutata, nell’iter decisionale, la prospettiva comunitaria su una scelta che poteva sembrare, a una lettura superficiale, squisitamente tecnica. Cosa c’è di più ovvio di una montagna che sta crollando e di un’opera di difesa che deve essere all’uopo progettata? In realtà tra il problema e la soluzione, come si è visto, c’è di mezzo il mare.

La società contemporanea, infatti, è caratterizzata da un articolato livello di sofisticazione culturale che può produrre cortocircuiti sociali capaci, a loro volta, di interrompere, o rendere molto difficoltoso, il processo decisionale. Le comunità oggi non sono aggregati semplici e banali, ma insiemi caratterizzati da pluriappartenenze, abitate da individui con diversità d’identità, di culture, d’interessi e di opinioni. E proprio questa complessità deve essere governata attraverso percorsi di inclusione deliberativa, gli unici in grado di garantire, in fin dei conti, la certezza dell’iter decisionale e quindi della sua operatività.

C’è allora tutta una nuova grammatica che deve essere insegnata, imparata e interiorizzata. Non solo da parte degli amministratori, a cui spetta sicuramente il compito più gravoso di fare delle scelte. Ma anche da parte dei tecnici che spesso sono coinvolti nel processo decisionale. E da parte dei cittadini che sono chiamati ad una nuova responsabilità, che interessa sfere fino a ieri prerogativa dei rappresentanti istituzionali. In questa prospettiva può essere interessante tornare ai suggerimenti di Paulo Freire, pensatore brasiliano, noto per la sua «pedagogia degli oppressi»: ovvero, «rispettare gli altri abbastanza da ascoltarli molto oltre le parole che dicono», scoprendo le possibilità emergenti, in modo da co-generare le domande e le strategie di sviluppo di comunità.

Dentro una società complessa, come quella in cui viviamo, il principio della partecipazione deve essere concretamente implementato attraverso pratiche adeguate, moderne e coerenti con le peculiarità del luogo.

Per queste ragioni deve essere pazientemente costruita una nuova cultura della partecipazione, a tutti i livelli. E, di pari passo, va aumentata la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore pubblico. Con lo scopo di neutralizzare quel meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Che porta l’esercito dove ci dovrebbe essere solo l’esercizio della democrazia.

Creando procedure capaci di stimolare la partecipazione ne guadagneranno tutti: gli amministratori nella loro immagine pubblica e nel loro consenso, i cittadini nell’esercizio della loro sovranità, i problemi concreti, nelle possibilità di essere, finalmente, risolti.

Alessandro Franceschini

Architetto

CORSO BASE DI FOTOGRAFIA 2017

Consiglio a tutti, principianti e non, questo corso: i principianti acquisiranno la formazione di base per proseguire nel loro percorso fotografico mentre chi è già più esperto, oltre ad un ottimo ripasso generale, potrà iniziare il cammino per diventare, oltre che un buon fotografo, anche un autore di qualità.

CORSO BASE DI FOTOGRAFIA 2017 organizzato dal circolo IL FOTOGRAMMA
Il 23 marzo la prima lezione
Anche quest’anno Il Fotogramma organizza il consueto corso base di fotografia aperto a tutti coloro si vogliano avvicinare per la prima volta al mondo dell’arte fotografica o per chi già possiede delle conoscenze in materia e desidera approfondirle. Il corso è finalizzato a fornire al partecipante le conoscenze di base necessarie al corretto utilizzo della macchina fotografica per poterla utilizzare al meglio in ogni situazione e si articolerà in sette lezioni teorico-pratiche tenute il giovedì in orario serale a partire dal 23 marzo. Durante le lezioni verranno trattati i principali argomenti riguardanti la tecnica fotografica tra cui, la storia della fotografia (cenni), struttura e funzionamento della fotocamera, coppia tempo/diaframma, calcolo della corretta esposizione, la luce, temperatura colore, profondità di campo, distanza iperfocale, composizione fotografica, corretto utilizzo delle luci e del flash, il file digitale e altro. Oltre agli incontri teorici, saranno organizzate due uscite fotografiche sul territorio per mettere in pratica quanto imparato in aula. La partecipazione al corso include l’automatica iscrizione al circolo per l’anno in corso con la possibilità di partecipare a tutte le attività dell’associazione. Per partecipare al corso consigliamo di essere in possesso preferibilmente di una fotocamera reflex (digitale o analogica) o una fotocamera compatta digitale che però permetta almeno l’utilizzo in modalità manuale. Ad ogni partecipante verrà consegnata una dispensa del corso. Le lezioni teoriche serali si terranno presso il teatro di Nago.