Guido Benedetti

"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

Referendum, un’arma negata

di Michele di Pisa

(originale in : http://micheledipisa.wordpress.com/2009/06/23/referendum-unarma-negata/ )

Il fallimento dell’ultimo referendum, per mancato raggiungimento del quorum, impone alcune considerazioni.
La prima concerne la disparità esistente tra coloro che sono favorevoli ad un dato quesito referendario e coloro che invece si oppongono. I primi, infatti, hanno due scogli da superare: a) convincere gli elettori a recarsi a votare, senza di che il referendum muore; b) convincerli della bontà delle proprie tesi.
Per contro, gli avversari dispongono di due armi per minare gli obiettivi dei primi: 1) il legittimo voto contrario al quesito proposto; 2) l’arma dell’astensione che, in definitiva, condiziona la validità del referendum stesso: perché un referendum sia valido spesso occorre la benevola partecipazione al voto di quanti vi si oppongono.

Si aggiunga a ciò l’indebita appropriazione, da parte degli oppositori di un referendum,  della volontà di voto di quanti fisiologicamente, in un sistema dove non esistono le liste elettorali e il voto è un diritto-dovere di ogni cittadino maggiorenne, sono soliti non partecipare ad alcuna consultazione o comunque sono costrette per i motivi più vari ad astenersi.

L’uso, spesso spregiudicato, dell’invito all’astensione è certamente un’evidente coartazione della democrazia. La disparità tra i due gruppi è stridente e, francamente, non so quanto ciò sia costituzionale. Molto probabilmente non lo è, e mi stupirei molto se questo aspetto non fosse mai stato sollevato.

I gruppi politici o d’opinione che ricorrono a questo meschino machiavellismo dimostrano un evidente disprezzo per lo spirito profondo della democrazia e l’elettore maturo farebbe bene a ripagarli con la stessa moneta.

Una seconda considerazione concerne la segretezza del voto, ampiamente violata e violabile qualora si vogliano monitorare gli orientamenti politici dei votanti sulla base della partecipazione ad un referendum, essendo ormai quasi scontato che il prendervi parte rappresenti un’esplicita scelta di campo. Anche in questa ottica appare evidente una grave violazione d’un principio costituzionale: quello della segretezza del voto

Per ovviare ad alcune di queste storture, c’è chi propone l’abbassamento della soglia del quorum. Altri, invece, invocano dei rarificarne l’evenienza, magari elevando il numero delle firme necessarie per la proposizione.

Francamente non condivido nessuna delle due posizioni e continuo a sognare un paese dove le date per le consultazioni elettorali non vengano scelte dalle maggioranze al potere in base a meri e contingenti tornaconti, alle previsioni sulle voglie di mare, e comunque con il chiaro intento di condizionarne il risultato.

Sogno un paese dove una legge generale (e non modificabile in base alle previsioni meteorologiche) stabilisca la giornata elettorale dell’anno una volta per tutte, sicché tutte le consultazioni, di qualsiasi tipo ordine e grado, si svolgano in quella data prefissata e immodificabile, comprese le consultazioni referendarie senza che alcun elettore possa ricorrere alla furbizia di rifiutare una scheda e di portarsi assente per una delle elezioni previste, pur essendo presente e votante per le altre.

Non sono d’accordo neppure con coloro che ritengono eccessivo il ricorso che in questi ultimi decenni si è fatto al referendum: uno strumento al quale, invece, non si ricorre mai troppo, se penso alle decine e decine di quesiti referendari ai quali sono chiamati a dare risposte, in occasione delle giornate elettorali, ad esempio, i cittadini statunitensi.

Per non essere frainteso, tengo a precisare che dei quesiti referendari appena bocciati, solo uno mi convinceva del tutto (quello sul divieto delle candidature plurime).
Per quanto concerne i primi due, pur non essendo un proporzionalista a 360 gradi, è il concetto stesso di “premio di maggioranza” che mi lascia perplesso.
Ogni mezzo deve essere adeguato al suo scopo. La tecnica elettorale, pertanto, non può prescindere dai compiti dell’organismo da eleggere. Così, per un consesso di tipo puramente amministrativo (come un organismo di governo locale o una Camera Bassa, deputata al solo indirizzamento e controllo dell’attività governativa) non trovo per nulla scandaloso un sistema maggioritario secco, basato su piccoli collegi nominali, dove i candidati sono soprattutto “persone” che dichiarano di riconoscersi in un partito senza essere da questi necessariamente designati. Il cercare di raggiungere lo stesso scopo con discutibili soglie di sbarramento o premi al vincitore relativo, mi sembra un’inutile orpello.
Al contrario, non saprei trovare soluzioni diverse da un rigido sistema proporzionale (con candidati designati da un meccanismo di primarie) per una Camera Alta la cui unica attività consista nell’emanazione di Leggi Etiche. Che sono cosa diversa e per n nulla collegabili, mettiamo, col volere fare un ponte o un’autostrada.

L’albergo diffuso

di Laura Galassi da Vita Trentina del 15 aprile 2009

L’albergo diffuso è un modello di ospitalità turistica che punta a mettere in rete diverse proprietà private, senza costruire nuove strutture ma ristrutturando quelle già presenti. I servizi di ristorazione ed intrattenimento vengono fruiti dal turista direttamente sul territorio.

In questo modo l’albergo diffuso funge da presidio sociale, animando i paesi e generando indotto economico. Il visitatore ha inoltre la possibilità di conoscere veramente il territorio.

Global Village 3 : La crisi dei piccoli negozi, tante chiusure in centro

di Michele Comper (da L’Adige di Mercoledì 17 giugno 2009)

Sabato sera le serrande della rivendita Sav di piazza Cal di Ponte si sono abbassate per l’ultima volta. Una parte dei prodotti saranno sugli scaffali della famiglia cooperativa, soluzione già sperimentata altrove e legata alle note difficoltà della Società agricoltori Vallagarina, ma sono almeno due gli altri negozi del centro storico che s’apprestano a mettere fine all’attività. Una lunga, inarrestabile agonia, quella del piccolo centro moriano, che pur in atto da tempo (e legata a dinamiche ben più ampie), per molti è difficile non mettere in relazione alla nascita del mega centro polifunzionale nell’area Pgz9. Dove – accanto ad un’infinità di attrattive e servizi – sono previsti quasi 60 nuovi negozi di tutte le taglie. Dal negozietto di vicinato, stile piccola frazione, al megastore tipo Affi.

«Già l’apertura del Millennium ha fatto calare il numero di clienti – racconta Fioravante Bertolli che assieme al padre porta avanti un negozio di elettrodomestici nella centralissima via Gustavo Modena – è inevitabile che col nuovo centro la situazione peggiori ancora. E i margini di guadagno, già minimi, si assottigliano. Per noi, se là apre un qualche soggetto concorrente, saranno davvero dolori. Ma non la vedo bene neppure per chi aprirà al Pgz9: basta guardare il continuo turn-over al Millennium, dove solo le grandi catene ce la fanno, mentre per i piccoli è dura. Ci sono un sacco di spese in più, e un tipo di clientela che guarda soprattutto al prezzo». «I clienti qua sono sempre gli stessi – dice Edo Furlini, che dal 1982 ha una ferramenta su piazza Cal di Ponte – e a forza di centri commerciali saremo tutti costretti a chiudere. È una vergogna. Anche per lo scempio ambientale: ettari ed ettari di cemento al posto delle campagne. E per i clienti nessun servizio: compri leggendo la confezione e poi ti devi arrangiare. Mentre noi siamo in grado di dare un consiglio, e se poi qualcosa non va, siamo sempre qui, con la nostra faccia».

«C’è anche una dimensione umana, nei nostri negozi – dice Cristina Gerola (ha una piccola boutique sulla piazza) – che andrà scomparendo. Le quattro chiacchiere, il legame con il tuo paese. Mori così rischia di diventare un dormitorio».

Pessimista anche Maria Grazia Magagnotti (anche lei ha un negozio di moda) che definisce «catastrofica» la situazione: «I miei clienti me li sono conquistati in anni di lavoro serio – dice – ma è chiaro che nel nuovo centro saranno attirati da tutte quelle proposte. E una volta là, compreranno tutto quello di cui hanno bisogno. Sono contraria anche al modello di vita che questi centri impongono a noi negozianti: orari lunghi, lavoro di sabato e domenica, rapporti impersonali e alienanti».

Serena Chizzola (gestisce l’edicola di via Modena) è uno dei negozianti che medita di chiudere: «Lo faccio per motivi non legati al nuovo centro – dice – ma è chiaro che di questo passo molti altri saranno costretti a farlo. Per noi il giro di clienti è sempre quello, e ad ogni centro commerciale che apre, i clienti diminuiscono».

Mario Regolini medita di cambiare completamente attività (la sua fioreria è all’imbocco di via Modena): «Ho molti dubbi anche sulla validità sociale di questi centri – dice – perché l’unica cosa certa è che a guadagnarci, e molto, sono i costruttori. Mentre a perderci sono in tanti. Lo vedi dalla grande rotazione al Millennium che qualcosa in questo sistema non va».

Grandi opere pubbliche (e iniziative private) : un’opportunità per il territorio?

Ogni volta che ci viene presentata una nuova opera pubblica o una nuova iniziativa, anche di carattere privato, che modifica il nostro territorio (inteso come ambiente, popolazione, storia e identità) ci vengono elencate tutte le possibili ricadute positive.

Ogni volta che un’opera viene ultimata ci rendiamo conto, anche se non sempre immediatamente, che i reali effetti positivi sono assai minori e che ne esistono anche di negativi.

Purtroppo, molte volte, non è sufficiente la sola realizzazione di un’opera a costituire un’opportunità positiva ma è necessario instaurare una rapporto di dialogo tra opera e territorio dove l’ente pubblico deve fare da “regista”.

Per diventare una VERA OPPORTUNITÀ per tutto il nostro territorio, e non solo per poche persone, la nuova opera o iniziativa deve, infatti, essere messa a sistema con altre azioni fondamentali che di solito sono rappresentate da forti azioni di governo, nella maggioranza dei casi, locale.

Ciò è vero ancor più in una terra, come la nostra, dove la parola Autonomia è giustamente piena di significato a livello provinciale, ma a livello locale fa fatica ad imporsi, ed è normale delegare continuamente al livello amministrativo superiore la risoluzione di problemi che invece potrebbero essere risolti molto più efficacemente e velocemente con una forte presa di coscienza circa la necessità che le comunità locali si riapproprino del proprio destino.

Il centro commerciale più grande di tutti – 2 ; L’Adige del 13.06.2009: ”Mega center: vanno a ruba i negozietti”

Il quotidiano L’Adige di oggi, sabato 13 giugno 2009, torna a dedicare un proprio articolo al costruendo “Global Village” di Mori.

Quello che l’articolista, Michele Comper, ci riporta nell’apertura del suo pezzo (il positivo avvio economico della struttura e il fatto che “tutte le licenze commerciali disponibili” – quelle relative a metà della superficie commerciale totale – “sono già assegnate”) ci rallegra perché questo vuol dire che, pur in tempi di crisi economica, il business plan dell’operazione risulta ben calibrato e, almeno per il promotore dell’iniziativa, l’operazione sembra rilevarsi proficua.

Purtroppo, però, nel seguito, l’articolista non riesce a dare valide risposte alle problematiche evidenziate nella nostra lettera “Il centro commerciale più grande di tutti: proprio a Mori?” pubblicata ieri su “L’Adige” di cui l’articolo di oggi sembra essere un tentativo di risposta.

Non ci saremmo infatti aspettati una mera difesa dell’intervento (che crediamo spetti, se necessaria, esclusivamente al promotore) ma una rassicurazione sul percorso che ha portato all’approvazione del progetto e su tutte le azioni che saranno messe in campo per mitigare al massimo gli effetti negativi sul territorio locale di questa iniziativa.

Come abbiamo già detto, infatti, siamo consapevoli che ormai l’iniziativa è approvata e verrà di conseguenza realizzata, ma questo non significa che non si possano mettere in campo azioni di indirizzo e di governo, oltre che azioni dirette, per rendere quest’opera una vera opportunità per il territorio o almeno per limitare al massimo le ricadute negative su Mori.

La questione morale – Repubblica, 1981 Intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari

«I partiti sono diventati macchine di potere», «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.

«I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

 Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio…

…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire. «La Repubblica», 28 luglio 1981