L’aver pensato rettamente non è un merito: statisticamente è quasi inevitabile che tra molte idee sballate, confuse o banali che gli si presentano alla mente, qualcuna ve ne sia di perspicua o addirittura geniale; e come è venuta a lui, può esser certo che sarà venuta pure a qualcun altro.
Più controverso è il giudizio sul non aver manifestato il suo pensiero. In tempi di generale silenzio, il conformarsi al tacere dei più è certo colpevole. In tempi in cui tutti dicono troppo, l’importante non è tanto il dire la cosa giusta, che comunque si perderebbe nell’inondazione delle parole, quanto il dirla partendo da premesse e implicando conseguenze che diano alla cosa detta il massimo valore. Ma allora, se il valore di una singola affermazione sta nella sua continuità e coerenza del discorso in cui trova posto, la scelta possibile è solo quella tra il parlare in continuazione e il non parlare mai.
Italo Calvino in “Palomar” [1983]
“Anche il silenzio può essere considerato un discorso. Dopo molti (inutili) discorsi, scegliere la strada del silenzio è la migliore soluzione. Stempera le cose, diluisce le aspettative, favorisce l’irrobustirsi dell’’oblio. Non è facile, ma è un viatico necessario, verso un tempo nuovo.
Diverso è il “mordersi la lingua”, la cui accezione, credo, abbia una valenza diversa. Nel tuo frammento visivo, Calvino (e tu lo hai sottolineato), accenna anche al silenzio, mi pare di cogliere, come “strategia” comportamentale, utile alla propria anima. Abbraccio Guido, ché leggerti è sempre un piacere. L.”
Commento di Luca Chistè su Facebook