Poi, stanco di stare tra i grattacieli e il vuoto umano della città americana, mi incamminai per la strada che portava al sottopassaggio presso il quale il presidente era stato colpito. Desideravo uscire nella pianura, inoltrarmi nella pianura texana, camminare in campagna. Ma ben presto mi trovai, unico pedone, dentro un labirinto di strade ed autostrade, tra sovrappassi allucinanti e sottopassaggi dove rombavano incolonnate le grandi macchine degli americani, così tronfie, monumentali, così simili nell’aerodinamica alle fortezze volanti e agli aeromodelli che io avevo costruito anni prima da ragazzo, con le grandi pinne caudali, le cromature vistose, i musi alti, imponenti, come le prue dei bombardieri Liberator. E mi trovai perduto, angosciato, perché non sapevo più come uscire da quell’intrico, da quel mondo artefatto, allucinante, senza più la dimensione dello spazio che io avevo acquisito tra le colline native, dove la campagna era ritagliata in tanti piccoli spazi, piccoli campi, piccoli orti, boschetti, giardini, casette, il tutto armonizzato secondo esigenze elementari, familiari e individuali. Il mondo perduto, che stava per essere distrutto anche da noi, per emulare gli spazi agglutinati, ordinati in schemi geometrici nuovi del Texas. I miei ritorni al paese dopo questi viaggi, queste esperienze, mi facevano assaporare attraverso tante piccole cose che un tempo non calcolavo, il piacere e il senso della storia, del costruito attraverso i secoli e le generazioni.
“Miracolo economico – Dalla villa veneta al capannone industriale” di Eugenio Turri