di Patrizia Ballardini
(da L’Adige del giorno 8 ottobre 2010)
Categoria: Un po’ di Polis
Investimenti locali e sussidiarietà
La notizia, riportata dai giornali locali, che la Comunità di Valle della Bassa Valsugana è in procinto di chiedere alla Provincia il finanziamento di un’ulteriore sede per un importo di circa 20 milioni di euro deve essere oggetto di alcune riflessioni su due distinti piani.
Il primo è riferito alla decantata maggiore efficacia degli investimenti pubblici programmati e realizzati mediante il principio della sussidiarietà e all’individuazione dell’entità minima territoriale a cui affidare tale programmazione.
Il secondo è riferito invece alla capacità di interpretare le esigenze dei residenti da parte della Comunità di Valle della Bassa Valsugana nello specifico e, in generale, da parte degli enti territoriali minori.
Con riferimento al primo ambito appare infatti scandaloso che in un angolo del trentino (Bassa Valsugana) si proponga la realizzazione (e si chieda alla Provincia il finanziamento) di una sede per la nuova istituzione quando in molti comuni di altre realtà territoriali trentine sono presenti chiare situazioni di priorità riferibili alla sistemazione degli edifici scolastici in stato fatiscente e non ancora adeguati alle nuove normative sismiche come richiesto dalla legge.
L’efficacia degli investimenti programmati non sarebbe maggiore se chi ha il potere di individuare le priorità avesse uno sguardo di insieme più grande? Nel rispondere a questa domanda dobbiamo ricordare a tutti noi che, pur con le specifiche diversità che ogni vallata trentina presenta, la popolazione trentina è di poco superiore alle 500 mila unità. È quindi necessario che il giusto decentramento amministrativo attualmente in corso mediante la costituzione delle Comunità di Valle sia accompagnato da precisi meccanismi provinciali di indirizzo, controllo e verifica al fine di garantire a tutti i trentini equità nella dotazione di servizi e infrastrutture.
Con riferimento invece al secondo ambito la considerazione da fare, non conoscendo in dettaglio la situazione territoriale locale, si riassume nella seguente domanda: “E’ possibile che l’investimento di 20 milioni di euro in una ulteriore nuova sede costituisca la Priorità massima nell’intero ambito della Comunità di Valle della Bassa Valsugana ”?
Considerato che l’ambito territoriale della Comunità di Valle è lo stesso dell’attuale Comprensorio della Bassa Valsugana e che, almeno per ora, non si conoscono le esigenze dell’istituzione Comunità in relazione alle competenze che, con la progressiva attuazione della riforma, le saranno trasferite appare perlomeno prematuro affrontare oggi la realizzazione di un’ulteriore sede che potrebbe poi rivelarsi di dimesioni sotto o sovrastimate rinviando interventi più urgenti e, probabilmente, anche più condivisi.
La responsabilità dei dirigenti
di Pierangelo Giovannetti da L’Adige del 21/06/2010
TRENTO – Spesso si sente dire che i problemi del Paese sono da attribuire in buona parte alla scarsa qualità e mancanza di responsabilità della nostra classe dirigente, intendendo per questa la classe politica. In realtà la classe dirigente di una città, di uno Stato, di una Comunità autonoma qual è il Trentino, non corrisponde alla sua classe politica. Né va intesa come l’élite dominante o la classe sociale che detiene le leve socio-economiche.
La classe dirigente di una società è l’insieme delle persone in possesso di caratteristiche di natura individuale e culturale che le rendono idonee da un punto di vista intellettivo, morale, di capacità, ad occupare posizioni di comando nei vari campi della vita socio-politico-culturale di un Paese. Classe dirigente sono cioè coloro che, per capacità intellettuali e tecniche, svolgono un ruolo di guida, di stimolo, di innovazione, di sviluppo, di indirizzo, di responsabilità collettiva.
La caratteristica di una classe dirigente degna di questo nome è quella di interpretare in chiave generale e di bene pubblico la produzione e destinazione di risorse, la composizione degli interessi (per loro natura diversi, e spesso confliggenti), l’assunzione di una funzione di leadership culturale capace di generare sviluppo collettivo e progresso sociale. Che la classe dirigente italiana sia in profonda crisi, addirittura inesistente o scomparsa come scrivono alcuni attenti osservatori tra cui Gian Enrico Rusconi, è purtroppo vero, e i risultati di questo sfascio sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Comunemente però si addita, anche all’interno della stessa classe dirigente, tale decadenza ai politici, non considerando invece che il ceto politico ne è soltanto specchio.
Il problema vero, infatti, è la sterilità della classe dirigente, la chiusura in se stessa e nei propri interessi, la mancanza di consapevolezza del proprio ruolo e della propria dignità, l’appiattimento sul ceto politico e i vantaggi che ne possono derivare. In una parola lo svuotamento del proprio ruolo di classe dirigente. In Trentino la situazione per certi versi è ancora più marcata. Esistendo infatti un Potere forte, anzi fortissimo, costituito dall’Autonoma Provincia di Trento, strutturato in Stato, con facoltà legislative, esecutive e finanziarie quasi assolute, questo ha assorbito in toto la classe dirigente trentina, ne schiaccia le funzioni avocandone a se il ruolo e i compiti, ne deresponsabilizza qualunque tipo di assunzione di rischio e di innovazione di sviluppo, diventando un comodo alibi per dire di fronte ad ogni necessità, pubblica o privata: «Ci pensi la Provincia».
Avviene così in ogni campo: gli imprenditori si affidano alla Provincia per affrontare e risolvere la crisi, la Cooperazione rimanda alla Provincia per pagare i conti di proprie cattive gestioni del latte e del vino, le categorie non battono ciglio se prima non ci pensa piazza Dante, i Comuni e i territori non si sforzano di ideare in loco il proprio sviluppo e di trovare le risorse (anche private) per realizzare le proprie idee ma puntano soltanto ad avere una sponda in Provincia. E così via in ogni campo: nella cultura, nella scuola, nell’università, nella sanità. Mai che si veda un privato in Trentino mettere soldi e idee per la ricerca, ma i tanti istituti e fondazioni di ricerca che abbiamo funzionano soltanto con risorse pubbliche. Stessa cosa nella cultura e nell’arte: mai che vi sia una mostra al Mart, o negli altri musei, finanziata da privati, come avviene ovunque negli Stati Uniti e in molti dei paesi occidentali. Per non parlare della scuola, ridotta ormai ad una cinghia di trasmissione di qualche funzionario provinciale, quando un tempo il preside era classe dirigente, e non un ingranaggio della filiera di comando assessorile. Non solo non vengono soldi, ma spesso nemmeno idee, progetti, direzioni di sviluppo. Quella che dovrebbe essere la classe dirigente del Trentino è in realtà afona, Provincia-dipendente, tutti a pendere dalle labbra di ciò che decide il Principe. E se questo non decide sono guai per tutti. Di qui si capisce la fibrillazione e il dibattito a tre anni di distanza di chi sarà a prendere il posto di Lorenzo Dellai. Questione che non dovrebbe essere un problema, disponendo di una classe dirigente capace e preparata, magari giovane e impostasi per criteri meritocratici, da cui anche il ceto politico può trarre risorse, essendo morti i partiti. Questa debolezza della classe dirigente in Trentino ha pure radici storiche. Noi non abbiamo avuto le città comunali del Medioevo, dove si è imposto un potere nuovo, «democratico» secondo la definizione che ne ha dato Max Weber, che è diventato determinante per lo sviluppo dei liberi comuni, in cui le libere professioni, le categorie, gli imprenditori, i banchieri, hanno dato vita ad una diversa classe dirigente che è diventata trainante per lo sviluppo delle città, che ancora oggi mantengono le vestigia della grandezza di allora.
In Trentino abbiamo avuto l’esperienza secolare e importantissima delle magnifiche comunità di valle, che ha fatto sviluppare nei trentini un senso comunitario molto forte ma non la responsabilità individuale, meritocratica, competitiva, di ciascuno di «innovare» con un vantaggio collettivo per tutti. E abbiamo avuto il Principato vescovile, altrettanto importante e decisivo, che ha affidato alla grandezza dei Clesio e dei Madruzzo il lustro europeo di questa terra. Ma ha un po’ deresponsabilizzato i trentini, che non si domandano più cosa possono fare per la loro provincia, ma si chiedono quotidianamente cosa la Provincia può fare per loro. E ottocento anni di Principato vescovile hanno creato le premesse per l’attuale Principato, affidato tutto alle doti di chi diventa Principe, e non alla ricchezza morale, intellettuale, imprenditoriale di un’intera società e della sua classe dirigente complessiva.
Il riscatto del Trentino dal suo assopimento (anche da pancia piena), lo scatto di fronte alla crisi e alla competizione internazionale dei territori, la capacità di superamento del piccolo cabottaggio o della chiusura nei propri interessi personali, corporativi, finanziari, sta nell’assunzione di responsabilità da parte della classe dirigente trentina. Il farsi carico di un ruolo di guida, di sviluppo, di crescita della propria città e dell’intero Land in maniera innovativa, corresponsabile, sulla base di una forte etica pubblica che premi il merito rispetto alla cooptazione, la capacità di rendere conto delle proprie azioni (accountability, direbbero gli anglosassoni), facendosi carico fino in fondo della posizione che si ricopre all’interno della società, rischiando in prima persona, favorendo il ricambio interno, riducendo il peso dei critieri di anzianità e di favoritismo nelle scelte a vantaggio delle capacità individuali. Se tutti, a cominciare dalla classe dirigente del Paese e del nostro Trentino, non ci assumiamo fino in fondo le nostre responsabilità, il declino in atto già pesante non avrà fine, e sarà inarrestabile. Questa è la questione centrale, non chi siederà a piazza Dante fra tre anni.
p.giovanetti@ladige.it
Rivoluzione gentile che chiude un epoca
da Trentino del 01 giugno 2010
di Alberto Faustini
C’era una volta il Trentino. Quello della Dc. Quello un po’ gattopardesco nel quale sembrava succedere di tutto, ma si muovevano ben poche foglie senza che lo volessero le due mamme: la Democrazia cristiana, appunto, e la Provincia, che della grande balena bianca è stata a lungo un’autorevole e munifica dependance. Ieri, da qualunque parte la si voglia guardare, c’è stata la rivoluzione. Certo, figlia di molti cambiamenti nati in questi anni. Ma definitiva. Al punto che è stata capace di accelerare alcuni di questi processi, annientandoli persino. Dall’urna esce infatti un Trentino profondamente modificato. Restano alcune radici culturali, ma sono interpretate in modo diverso. Il nuovo Trentino ha l’aspetto di Andrea Miorandi, ma anche quello degli elettori che scommettendo sul futuro hanno permesso il pensionamento (dorato) di Guglielmo Valduga, che in quest’ultimo giro di giostra, nel bene e nel male, ha impersonato, ancor più di Morandini o Anesi, la metafora del passato. Anche se ha tentato di essere, nella sua ultima stagione, il più civico dei civici. Quella che esce dalle urne (sempre meno frequentate, e questo dato preoccupante deve far meditare) è una rivoluzione gentile. E la rivoluzione gentile ha anche l’aspetto di un Pd che alla prova di forza con l’Upt ha dimostrato di avere muscoli ben più tonici. Questi ultimi ballottaggi hanno poi la fisionomia di un centrosinistra che da oggi dovrà guardarsi dentro e fuori. Perché gli strappi all’interno dell’alleanza che guida la Provincia autonoma hanno avuto alcuni esiti grotteschi, con un’Upt che ha sostenuto la novità Miorandi a Rovereto e, contestualmente, i “vecchi” e perdenti Turella, Anesi e Morandini a Mori, Baselga di Piné ed Arco. Il centrosinistra trentino come l’abbiamo inteso fino a due anni fa, in queste elezioni ha dunque dimostrato d’aver esaurito la sua spinta. Delle due l’una: o ieri i fasti del governatore sono definitivamente finiti ed è ufficialmente iniziato il dopo Dellai, con un baricentro spostatosi prepotentemente a sinistra (e allora l’anomalia Trentino è svaporata); o è giunta l’ora di voltare pagina, superando le alchimie politiche e costruendo un partito di raccolta (vedi l’Asar di ieri o l’Svp di oggi) che sappia dare diritto d’asilo all’anima di un Trentino permeato di solidarietà e di cattolicesimo. Non la Margherita, all’inizio felice intuizione per salvare e riverniciare quel che restava della Dc, ma rapidamente divorata e snaturata a Roma. Non l’Upt, macchina da guerra solo quando mette in campo la forza delle istituzioni e del governo, locale e decentrato; a malapena stampella, per quanto tatticamente preziosa, in un turno elettorale come quello di ieri. Non il Pd, che pur vincendo ha dimostrato d’essere lontano dall’autosufficienza. E qui s’innesta il ragionamento nazionale: le elezioni comunali dicono infatti che siamo sempre meno “diversi” dall’Italia. Importiamo alla grande tutti i distinguo e le divisioni che ci sono tanto nel Pd quanto nel Pdl (drammaticamente assente a queste elezioni) e non siamo più in grado di esprimere qualcosa di realmente innovativo, degno d’essere esportato e copiato. Sulla vittoria di Miorandi, a sua volta metafora di una nuova epoca (con Caliari, Mattei, Ugo Grisenti…), si può invece costruire proprio questo: un progetto politico che non si presenti alla società solo in occasione delle varie elezioni, ma che sia prodotto dalla società stessa. I vincitori delle sfide più importanti – che, ricordiamolo, sono usciti spesso dal cilindro per caso, grazie ad una serie di ridicoli veti incrociati – non sono uomini d’apparato. Dal punto di vista della generazione politica, sono post-ideologici. Persone che si sono costruite un futuro senza aspettare la pappa pronta che la politica – ed è un bene, anche se molti continuano a preferire la scorciatoia dell’appartenenza alla sfida del mercato – non sa più garantire. La rivoluzione trentina non è tale per questioni anagrafiche: è tale perché è post-partitica. Chi ha rifiutato il mercato proposto dai partiti tradizionali è infatti stato premiato da elettori che hanno dimostrato ancora una volta di essere più avanti dei politici, cogliendo la forza innovativa, il linguaggio moderno, persino il candore di alcuni candidati che da ieri sono sindaci. Come direbbe Diamanti, in una società che guarda sempre di più attraverso lo specchietto retrovisore, incapace dunque di proporre un’idea di futuro, Berlusconi – piaccia o non piaccia – è l’unico che ha proposto un sogno. Ebbene, in Trentino, in assenza di Silvio (latitanza colpevole, per tutta l’area del centrodestra, che porta a casa la sola vittoria di Pellegrini a Lavis), quel sogno l’hanno costruito Miorandi a Rovereto, Grisenti a Baselga di Piné, Caliari a Mori, Mattei ad Arco… Età e formazioni diverse, le loro, ma tutte essenzialmente “decontaminate” dall’appartenenza partitica stretta: tutte espressione di quella che con una parola abusata si chiama la società civile. Se è vero che il Pd s’è mangiato l’Upt in un sol boccone, se è vero che unito il centrosinistra vince anche le sfide impossibili e se è vero che lo sconfitto Dellai resta ugualmente al centro del proscenio – costretto però a liberarsi in dodici secondi del rutellismo, pena un’anticipata scomparsa dalla scena – è anche vero che i trentini fanno le riforme anche senza i partiti. E la riforma firmata da queste elezioni è un taglio netto con la vecchia politica, e una forte impennata che chiama in causa direttamente i cittadini. Ieri è cominciato il futuro. E che qualcuno già ci veda il volto di Olivi e non quello di Rossi o di Kessler non conta nulla. Il futuro ha bisogno di idee prima ancora che di persone. E i nuovi leader forse ci sono anche se non li vediamo.
Ora un partito di raccolta
da Trentino del 3 giugno 2010
di Vincenzo Calì
Che la nascita di un vero partito di raccolta in Trentino stia diventando il primo punto dell’agenda politica nostrana lo spiega bene Alberto Faustini nel suo commento ai risultati elettorali delle comunali: la prova del nove che gli attuali partiti non sono più atti alla bisogna lo rileviamo sostanzialmente esaminando il caso di quello che fra i partiti è il più strutturato, il PD. Il partito erede della tradizione partecipativa per antonomasia, rinunciando per intrinseca debolezza al metodo delle primarie, ha subito un calo di consensi al primo turno rispetto alle tornate elettorali passate e risulta ulteriormente indebolito dal fatto che i sindaci marcati PD, pur affermatisi nei ballottaggi, godono di una base elettorale piuttosto scarsa. E’ urgente per l’autunno, quando si terranno le elezioni delle Comunità di valle, porre rimedio alla deriva in atto dando vita da subito ad un’intesa democratica autonomista che si ponga l’obbiettivo di scegliere i futuri candidati di valle attraverso un metodo partecipativo, una sorta di primarie di comunità, intesa a cui i residuali partiti cedano una parte di sovranità riguardo alle scelte dei candidati. Solo attraverso questo metodo si potrà verificare se potrà nascere quel partito di raccolta che possa evitare ai trentini alle prossime elezioni provinciali di finire vittima del concetto di territorialità che è proporio del leghismo padano. Intraprendere questa strada servirà anche ad aprire con i vicini sudtirolesi, proprio sul terreno delle comunità territoriali, un dialogo serrato riguardo la ricomposizione di un quadro regionale della cui necessità si avvere sempre più l’esigenza a fronte degli attacchi centralistici del governo nazionale, attacchi a cui le due provincie separatamente non possono pensare di far fronte. Sono trascorsi due anni dalla scomparsa di Walter Micheli, che della dimensione di comunità, intesa come società aperta al futuro, aveva fatto la sua stella polare: vediamo in suo nome di guardare in avanti con coraggio, senza attardarci nella contemplazione del paesaggio politico del passato che, come sottolinea giustamente Faustini, è alle nostre spalle ed è bene che lì rimanga.