"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

“Uniformizzazione e monotonia edile”

Prima del 1945 la Valsugana, la valle di Cembra, di Non, di Sole, dei Mòcheni, di Lagaro, il Lomaso, il Terragnolese, presentavano una differenziazione casa-insediamento così personale da poterla rilevare immediatamente, senza quasi approfondirne il tema. In una stessa vallata come quella dei Mòcheni, che fino al 1950 rimase avulsa dal territorio per mancanza di strade, si concentrarono due tipi distinti di insediamento, da stupire l’etnografo e lo stesso antropologo, pur avendo un contesto comune di usi, costumi, tradizioni, religione. Percorriamo, oggi, le stesse valli, guardiamoci in giro. Rimarremmo perplessi perché non riusciamo quasi più a rintracciare quegli elementi costruttivi che le evidenziavano le une dalle altre e davano ad ognuna la loro chiara, distinta personalità. Le case che l’uomo moderno ha inserito nel paesaggio, eliminando le vecchie case, sono uguali a Pinzolo, a Tuenno, a Taio, a San Zeno, a Terragnolo, a Vigo di Fassa, a Tesero, a Canazei. Non più quindi una espressione di casa per vallate e distinta personalità, ma un territorio di uniformizzazione e monotonia edile che può trovare gli stessi riscontri nelle pianure di qualsiasi ormai anonimo paesaggio europeo occidentale. Pensiamo alla Campiglio di un tempo e a quella di oggi. Basterebbe che qualcuno inventasse una macchinetta per produrre l’aria di Campiglio per augurarci quasi di starcene seduti davanti a uno schermo a Milano.

Giuseppe Sebesta, fondatore del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina

L’ingenuo rimpianto per lo scarto tra tempo passato e tempo presente

La profondità dello scarto tra il tempo passato e il tempo presente si riconosce con straordinaria immediatezza negli scorci di Borgo Valsugana, Lardaro, Revò, Tesero, Valda – e non solo – in cui Gabriele Basilico ritrae un’impeccabile attenzione per l’ordine e la pulizia, che mai in precedenza i paesi del Trentino avevano conosciuto. Le stalle e le cantine e i solai sono trasformati in rimesse e mansarde e quanto contenevano e custodivano, ormai inutilizzato e inutilizzabile, si ritrova appeso a un muro o nell’angolo di un giardino a recitare incongruamente la parte della fioriera, relitto di un tempo cui si guarda con una sorta di ingenuo rimpianto, ma che nel contempo si vuole definitivamente passato.

Ancora le fotografie di Basilico, poste a confronto con le immagini d’epoca, rendono con singolare efficacia l’esito di un vasto processo di destrutturazione e ristrutturazione della secolare relazione tra il territorio, gli insediamenti e le attività economiche, misurando la reale distanza che nei paesi del Trentino separa il tempo presente dal tempo passato. E si tratta, in generale, di una distanza considerevole. In effetti, per quanto possa apparire paradossale, i paesi deserti d’abitanti che s’incontrano lungo l’Appennino – ma che non mancano pure in taluni settori dell’arco alpino – conservano un rapporto con il passato, in termini di continuità, di gran lunga più autentico di quanto possano vantare molti prosperi e dinamici centri del Trentino: paesi abbandonati, i primi, ma i cui edifici, lasciati a un lento, inesorabile disfacimento, custodiscono tuttavia la testimonianza fedele e intatta, se si prescinde dall’ ingiuria del tempo, di un mondo al tramonto.

Luca Faoro “Paesi (perduti) nel tempo in “Paesi perduti: appunti per un viaggio nell’Italia dimenticata”

Paesi (perduti) e relazioni (perdute)

Il dramma dei paesi perduti è la perdita di relazione, di conversazione, di dialogo. Interpretiamo l’abbandono e l’incuria innanzitutto come un fatto fisico. Ma vi è un abbandono, vi è un’incuria che non dipende dall’assenza ma che deriva dalla sospensione dell’empatia che intratteniamo con i luoghi. Non solo non si è più in grado di comprenderli, ma non si è più capaci di abitarli e viverli. Non serve dare colpa al tempo che passa e che inesorabilmente tutto scolpisce; bisognerebbe casomai riflettere su come le nostre scelte, le nostre preferenze, le nostre aspettative generano degrado e incuria. Il tema non sembra tanto quello di rapportarci a quei luoghi abbandonati e dismessi come se fossero qualcosa “fuori di noi” a cui dobbiamo trovare una nuova destinazione, ma interrogarci sulla qualità delle relazioni tra noi e il mondo, tra l’interno e l’intorno.

Gianluca Cepollaro “Paesaggi perduti” in “Paesi perduti: appunti per un viaggio nell’Italia dimenticata”

Oggi godiamo di possibilità…

Oggi godiamo di possibilità che renderebbero la vita nei borghi molto più felice e armoniosa di un tempo: nuove tecnologie, comunità ener-getiche, gruppi di acquisto solidale, svariati modi di comunicare e di creare connessioni. Fornire a quelle che definisco comunità resilienti i giusti strumenti, vuole anche dire porre le basi per risanare il rapporto con la natura e con gli ecosistemi. Un nuovo equilibrio che arricchirebbe per davvero la vita di tutti gli esseri viventi che abitano un territorio.

Proprio per questo sono convinto che tornare a dare dignità ai luoghi marginali e ai borghi della nostra bella Italia è pratica innovativa, sostenibile e lungimirante per eccellenza.

Carlo Petrini da “Un contributo sul dibattito dei paesi perduti” in “Paesi perduti: appunti per un viaggio nell’Italia dimenticata”

… c’è un senso in questi luoghi.

Vige, a proposito dei paesi abbandonati, uno strano sentimento, superficiale e compassionevole. Questi luoghi, si pensa in genere, non hanno senso: non hanno più senso, se mai ne hanno avuto uno. E invece, c’è un senso in questi luoghi. Un senso per sentirli. Un senso per capirli. Un senso per percorrerli, che è quello doppio del partire e del tornare.

Vittorio Sgarbi dall’introduzione del catalogo della mostra “Paesi perduti”

La miseria forza vitale del Paese

La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitalismo, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima.

Leo Longanesi, “La sua signora”, 1957.