di Pierangelo Giovannetti da L’Adige del 21/06/2010
TRENTO – Spesso si sente dire che i problemi del Paese sono da attribuire in buona parte alla scarsa qualità e mancanza di responsabilità della nostra classe dirigente, intendendo per questa la classe politica. In realtà la classe dirigente di una città, di uno Stato, di una Comunità autonoma qual è il Trentino, non corrisponde alla sua classe politica. Né va intesa come l’élite dominante o la classe sociale che detiene le leve socio-economiche.
La classe dirigente di una società è l’insieme delle persone in possesso di caratteristiche di natura individuale e culturale che le rendono idonee da un punto di vista intellettivo, morale, di capacità, ad occupare posizioni di comando nei vari campi della vita socio-politico-culturale di un Paese. Classe dirigente sono cioè coloro che, per capacità intellettuali e tecniche, svolgono un ruolo di guida, di stimolo, di innovazione, di sviluppo, di indirizzo, di responsabilità collettiva.
La caratteristica di una classe dirigente degna di questo nome è quella di interpretare in chiave generale e di bene pubblico la produzione e destinazione di risorse, la composizione degli interessi (per loro natura diversi, e spesso confliggenti), l’assunzione di una funzione di leadership culturale capace di generare sviluppo collettivo e progresso sociale. Che la classe dirigente italiana sia in profonda crisi, addirittura inesistente o scomparsa come scrivono alcuni attenti osservatori tra cui Gian Enrico Rusconi, è purtroppo vero, e i risultati di questo sfascio sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Comunemente però si addita, anche all’interno della stessa classe dirigente, tale decadenza ai politici, non considerando invece che il ceto politico ne è soltanto specchio.
Il problema vero, infatti, è la sterilità della classe dirigente, la chiusura in se stessa e nei propri interessi, la mancanza di consapevolezza del proprio ruolo e della propria dignità, l’appiattimento sul ceto politico e i vantaggi che ne possono derivare. In una parola lo svuotamento del proprio ruolo di classe dirigente. In Trentino la situazione per certi versi è ancora più marcata. Esistendo infatti un Potere forte, anzi fortissimo, costituito dall’Autonoma Provincia di Trento, strutturato in Stato, con facoltà legislative, esecutive e finanziarie quasi assolute, questo ha assorbito in toto la classe dirigente trentina, ne schiaccia le funzioni avocandone a se il ruolo e i compiti, ne deresponsabilizza qualunque tipo di assunzione di rischio e di innovazione di sviluppo, diventando un comodo alibi per dire di fronte ad ogni necessità, pubblica o privata: «Ci pensi la Provincia».
Avviene così in ogni campo: gli imprenditori si affidano alla Provincia per affrontare e risolvere la crisi, la Cooperazione rimanda alla Provincia per pagare i conti di proprie cattive gestioni del latte e del vino, le categorie non battono ciglio se prima non ci pensa piazza Dante, i Comuni e i territori non si sforzano di ideare in loco il proprio sviluppo e di trovare le risorse (anche private) per realizzare le proprie idee ma puntano soltanto ad avere una sponda in Provincia. E così via in ogni campo: nella cultura, nella scuola, nell’università, nella sanità. Mai che si veda un privato in Trentino mettere soldi e idee per la ricerca, ma i tanti istituti e fondazioni di ricerca che abbiamo funzionano soltanto con risorse pubbliche. Stessa cosa nella cultura e nell’arte: mai che vi sia una mostra al Mart, o negli altri musei, finanziata da privati, come avviene ovunque negli Stati Uniti e in molti dei paesi occidentali. Per non parlare della scuola, ridotta ormai ad una cinghia di trasmissione di qualche funzionario provinciale, quando un tempo il preside era classe dirigente, e non un ingranaggio della filiera di comando assessorile. Non solo non vengono soldi, ma spesso nemmeno idee, progetti, direzioni di sviluppo. Quella che dovrebbe essere la classe dirigente del Trentino è in realtà afona, Provincia-dipendente, tutti a pendere dalle labbra di ciò che decide il Principe. E se questo non decide sono guai per tutti. Di qui si capisce la fibrillazione e il dibattito a tre anni di distanza di chi sarà a prendere il posto di Lorenzo Dellai. Questione che non dovrebbe essere un problema, disponendo di una classe dirigente capace e preparata, magari giovane e impostasi per criteri meritocratici, da cui anche il ceto politico può trarre risorse, essendo morti i partiti. Questa debolezza della classe dirigente in Trentino ha pure radici storiche. Noi non abbiamo avuto le città comunali del Medioevo, dove si è imposto un potere nuovo, «democratico» secondo la definizione che ne ha dato Max Weber, che è diventato determinante per lo sviluppo dei liberi comuni, in cui le libere professioni, le categorie, gli imprenditori, i banchieri, hanno dato vita ad una diversa classe dirigente che è diventata trainante per lo sviluppo delle città, che ancora oggi mantengono le vestigia della grandezza di allora.
In Trentino abbiamo avuto l’esperienza secolare e importantissima delle magnifiche comunità di valle, che ha fatto sviluppare nei trentini un senso comunitario molto forte ma non la responsabilità individuale, meritocratica, competitiva, di ciascuno di «innovare» con un vantaggio collettivo per tutti. E abbiamo avuto il Principato vescovile, altrettanto importante e decisivo, che ha affidato alla grandezza dei Clesio e dei Madruzzo il lustro europeo di questa terra. Ma ha un po’ deresponsabilizzato i trentini, che non si domandano più cosa possono fare per la loro provincia, ma si chiedono quotidianamente cosa la Provincia può fare per loro. E ottocento anni di Principato vescovile hanno creato le premesse per l’attuale Principato, affidato tutto alle doti di chi diventa Principe, e non alla ricchezza morale, intellettuale, imprenditoriale di un’intera società e della sua classe dirigente complessiva.
Il riscatto del Trentino dal suo assopimento (anche da pancia piena), lo scatto di fronte alla crisi e alla competizione internazionale dei territori, la capacità di superamento del piccolo cabottaggio o della chiusura nei propri interessi personali, corporativi, finanziari, sta nell’assunzione di responsabilità da parte della classe dirigente trentina. Il farsi carico di un ruolo di guida, di sviluppo, di crescita della propria città e dell’intero Land in maniera innovativa, corresponsabile, sulla base di una forte etica pubblica che premi il merito rispetto alla cooptazione, la capacità di rendere conto delle proprie azioni (accountability, direbbero gli anglosassoni), facendosi carico fino in fondo della posizione che si ricopre all’interno della società, rischiando in prima persona, favorendo il ricambio interno, riducendo il peso dei critieri di anzianità e di favoritismo nelle scelte a vantaggio delle capacità individuali. Se tutti, a cominciare dalla classe dirigente del Paese e del nostro Trentino, non ci assumiamo fino in fondo le nostre responsabilità, il declino in atto già pesante non avrà fine, e sarà inarrestabile. Questa è la questione centrale, non chi siederà a piazza Dante fra tre anni.
p.giovanetti@ladige.it